martedì 12 luglio 2016

Commercio mondiale: libertà di saccheggio

da: rinascita.net

Strano a dirsi ma, in mezzo al frastuono globale di notizie piccole e grandi, di maggiore o minore importanza, tra pettegolezzi, selfie e quant’altro, oramai elevati ad imprescindibile biglietto da visita per la nostra vuota civiltà, per la quale di tutto e di tutti, si deve dire e di più, all’insegna di una onnicomprensiva ed opprimente interconnessione, bene, in mezzo a tanto magniloquente starnazzare, sembra sia passata assolutamente sotto tono una di quelle notiziole che dovrebbe, invece, far tremare le gambe a qualunque individuo dotato di un minimo di raziocinio. In mezzo a tanto cianciare di crisi globale, di fine del primato degli Stati Uniti sul mondo ed altre simili amenità, zitti zitti e quatti quatti, proprio loro, gli USA si sono portati a casa dei successi di non poco conto, costituiti da quegli accordi di cooperazione internazionale e di ulteriore spinta all’apertura dei mercati di quelle nazioni che ne fanno parte. Parliamo di Tpp, Tisa e Ttip.
La prima sigla sta per Partenariato Trans-Pacifico (Tpp) ed è stato sottoscritto da dodici paesi che compongono il 40% del Pil mondiale: Usa, Messico, Perù, Cile, Giappone, Vietnam, Singapore, Brunei, Malesia, Australia e Nuova Zelanda. Questo tipo di accordo, si basa su tutte quelle asimmetrie tra i suoi membri che, notoriamente, finiscono con il favorire gli Usa, i principali interessati alla sua attuazione in quanto economia in posizione predominante tra quelle risultanti in questo elenco.
Il Tpp nasce inoltre con la finalità di creare un contrappeso alla crescita della Cina nel contesto geo economico asiatico, dove quest’ultima sta appunto assurgendo ad un ruolo primario. Il Giappone, da “competitor” a socio privilegiato degli Usa nell’area, è, in verità, divenuto la punta di lancia di questa strategia.

La seconda sigla sta per Accordo di Scambio sui Servizi (Tisa) ed è recentemente stato concluso a seguito di un negoziato svoltosi nel più grande segreto. Il Tisa permetterà alle varie “corporations” finanziarie di esportare tutti i dati personali dei consumatori attraverso le frontiere, contraddicendo, in tal modo, le attuali leggi sulla protezione dei dati, oggidì in vigore in molti paesi. Un’altra “sorpresa” del Tisa sta nel fatto che quelle stesse compagnie finanziarie internazionali, vengono “de iure” e “de facto” esentate dal rispetto delle normative del paese in cui agiranno, a patto che quelle stesse azioni siano permesse nel paese di provenienza. Così, tanto per cambiare, le varie compagnie USA potranno tenere unicamente conto delle normative di Washington, passando tranquillamente sopra la testa di quelle dei locali contesti d’azione. Contrariamente alle aspettative, però, questo accordo, sottoscritto da Australia, Canada, Cile, Colombia, Corea del Sud, Costa Rica, Stati Uniti, Hong Kong, Islanda, Israele, Giappone, Liechtenstein, Messico, Nuova Zelanda, Norvegia, Pakistan, Panama, Paraguay, Perù, Svizzera, Taiwan, Turchia e Commissione europea ha, invece, trovato l’opposizione maggioritaria dei paesi del Mercosur, capeggiati dall’Uruguay del governo a maggioranza Frente Amplio, con la sola significativa eccezione della presenza del Paraguay, membro fondatore del Mercosur; il che ci fa capire che, anche in questo caso, la partita, per quanto riguarda l’America Latina, è tutt’altro che definita.
La terza sigla sta per Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti (Ttip). Contrariamente agli altri due, il Ttip è ancora in fase di negoziazione e costituisce l’ulteriore tentativo di costituire un’area di libero commercio tra Usa e Ue. Anche in questo caso, i negoziati si svolgono in una condizione di segretezza che, probabilmente, giustifica quella che, del Ttip, fa un accordo “speciale”, ancor più dei suoi pari Tpp e Tisa. Difatti l’istituzione di un tribunale di arbitrato in grado di agire in modo totalmente autonomo ed indipendente, ripetto al sistema giuridico di ciascun paese al fine di favorire gli investimenti stranieri, fa di questo accordo, il momento clou di un sistema, creato proprio al fine di portare l’attacco finale all’autonomia delle scelte economiche dei vari stati nazionali, strangolandone de facto l’indipendenza. Un fatto questo che, per un’Europa attanagliata da una pluriennale crisi recessiva, ingenerata dall’ultimo ciclone finanziario partito da Oltreoceano cinque anni fa, potrebbe rivelarsi esiziale. Come possiamo quindi constatare, gli USA, contrariamente alle frettolose previsioni di qualche sprovveduto analista, attraversano tutt’altro che una fase di inesorabile decadenza. Le spese interne ed estere, l’esposizione debitoria verso la Cina (attraverso il massiccio acquisto da parte di quest’ultima di titoli del debito USA, sic!), oltre alle varie tempeste finanziarie, non sembrano averne minato granchè nè tenacia, né aggressività e né protagonismo, sulla scena politica ed economica mondiale. Questo perché, qualcuno ha forse dimenticato che, in primis, gli USA sono i maggiori esportatori al mondo di valuta. Il dollaro, ancor oggi è il punto di riferimento per tutte le transazioni economiche e finanziarie mondiali e, pertanto, gli Stati Uniti detengono la maggior quota di circolante di valuta al mondo, assieme al gigante cinese. Ma la Cina, al pari dei vari BRICS (Brasile, Russia, India, Sudafrica, etc.) è un gigante dai piedi d’argilla. Le politiche espansive, le crescite impetuose, nascondono una debolezza costitutiva caratterizzata da instabilità politica, immense sperequazioni sociali, endemiche mancanze di infrastrutture e, spesso, da una difficile e problematica interazione politica ed economica con i propri vicini (come nel caso dei pesanti risvolti economici determinati dai rapporti tra Federazione Russa e Ucraina, esemplificati dalla pluriennale vicenda dei gasdotti….sic!). Quella di un mondo multipolare è, per ora, uno specchietto per le allodole, dietro al quale si nascondono realtà geoeconomiche la cui impetuosa crescita è unicamente funzionale al fatto di far girare, più rapidamente e meglio, i soldi dei vari investitori internazionali. I tentativi di soppiantare il Nuovo Ordine Mondiale a conduzione USA, con un ordine multipolare viene, de facto, vanificato dal vertiginoso turbinare di un capitalismo che si autoalimenta di crisi la cui frequenza, va facendosi sempre più serrata e la cui intensità ed estensione sempre maggiore, con buona pace per le speranze di alleanze raccogliticce e malandate la cui tenuta costituisce, unicamente, un fenomeno di facciata, destinato ad infrangersi di fronte alle prime, serie, difficoltà. Tutto questo non significa, però, che gli USA siano i reali protagonisti e registi di certi fenomeni. Va, ad onor del vero, rimarcato il fatto che gli Stati Uniti, oggidì, fungono al ruolo di semplice gendarme ed esecutore dei “desiderata” dei poteri forti, di cui le grandi “corporation” finanziarie multinazionali, sono l’espressione più evidente. Certo, il fatto che quegli stessi centri di potere, delle volte preferiscano decentrare i propri interessi su altri contesti, è un fatto di puro tatticismo, che risponde unicamente alla necessità di sopperire e compensare con una più ampia dislocazione, ad eventuali perdite finanziarie, tanto più significative, quanto più capitali e risorse siano concentrati su un solo paese, fossero anche gli USA. Resta il fatto che, al di là dei vari tatticismi, la strategia di attacco agli stati nazionali ed alla loro libertà è oggi ad un punto cruciale, perché si innesta in un momento di crisi economica generale che tocca dal vivo sia i lavoratori che la classe media. Privatizzazioni selvagge, delocalizzazioni, licenziamenti di massa, fiscalismo esasperato, abolizione delle tutele sociali, accomunano in un fronte trasversale interessi e situazioni, sino a poco tempo fa incompatibili. Nell’ America Latina degli inizi di questo secolo, imponenti mobilitazioni e manifestazioni in Argentina, Brasile e Venezuela, contribuirono al successo dell’opposizione all’ALCA (Area di libero commercio delle Americhe), da parte di Kirchner, Lula e Chávez. La recente manifestazione di Berlino, con la partecipazione di 250mila persone contro questi accordi, costituisce, in questo senso, sicuramente un segnale favorevole, ma non sufficiente. Il sin troppo sparpagliato fronte di lotta al Globalismo liberista, ha oggi bisogno di un collante in grado di accomunare, istanze e prassi troppo spesso lontane e scollegate. Questo elemento, in grado di accomunare istanze ideologiche con prassi meramente politiche, è rappresentato dalla democrazia diretta, la cui applicazione andrebbe orientata unicamente in direzione di quei grandi processi decisionali che coinvolgono la globalità della vita di una comunità nazionale, come, per l’appunto, quei grandi accordi economico-finanziari, sottoscritti senza il consenso e la partecipazione di quelle masse di lavoratori e consumatori che, invece, per prime ne subiscono gli effetti. La stipula di questi accordi ed il malcontento che ne segue, potrebbe rappresentare un valido incentivo verso la creazione di quel Frente Amplio che, caratterizzato da una lotta senza quartiere al capitalismo liberista, porti a proprio comun denominatore la prassi di una democrazia diretta, in grado di contrapporsi risolutamente ad ogni iniziativa o tentativo di soffocamento della libertà e dei diritti da parte del liberismo capitalista e dei suoi scherani di sinistra e di destra.

lunedì 11 luglio 2016

Daesh abbandona le sue armi. E sono targate USA


Ma guarda un po’, Daesh si da a gambe levate e lascia sul posto il suo arsenale. Così si scopre che è tutto rigorosamente firmato USA. Sarebbero quelle armi che USA ha regalato ai ribelli cd. moderati anti-Assad, come se non si sapesse che si tratta della stessa feccia maleodorante di Daesh.

(www.difesonline.it) – Fonti militari irachene aiutano a vederci chiaro intorno agli eventi successivi alla liberazione di Falluja.

Innanzitutto l’attacco letale al convoglio di jihadisti in fuga del 29 giugno sarebbe stato messo in atto dall’aviazione irachena. Il Joint Special Operation Command avrebbe dato via libera alle forze aree di Baghdad dopo il rifiuto delle forze della Coalizione di iniziare l’azione a causa dell’alto numero di civili mischiati al convoglio. Le stesse fonti militari parlano di “famiglie di jihadisti in fuga”.

I miliziani dello Stato Islamico scampati all’attacco avrebbero poi lasciato sul terreno un quantitativo enorme di armi e veicoli, subito sequestrati dalle forze irachene. Tra le armi abbandonate ci sarebbe un numero impressionante di M79 OSA, armi anticarro di fabbricazione serba fornite in grande quantità dal Dipartimento di Stato USA ai cosiddetti “ribelli moderati” siriani. Originariamente le armi erano destinate al Free Syrian Army come deterrente contro le truppe corazzate di Damasco. Perché le armi siano finite in mano al Califfato è tutto da scoprire. I legami fra fronti ribelli siriani e islamisti non sono una novità ma le perplessità sui programmi di addestramento e sulle politiche mediorientali del Dipartimento di Stato aumentano.

sabato 9 luglio 2016

Lezione di sovranità da Ungheria: sui migranti voterà il popolo

da: azionetradizionale.com


Brexit? Forse solo l’inizio di un effetto valanga e, forse, dai risvolti anche positivi. Lo ha capito il premier Orban che, per il 2 ottobre prossimo, ha convocato un referendum per chiedere al popolo ungherese se vuole o meno gli immigrati redistribuiti dalla UE sul suo territorio. Una bella lezione di “democrazia” da parte di chi “democratico” non è.


(www.repubblica.it) – Dopo la vittoria del leave al referendum britannico sul Brexit, un’altra consultazione popolare si annuncia in un paese membro della Ue e della Nato, l’Ungheria. E sarà un difficile e importante test della “voglia d’Europa” nelle opinioni pubbliche dell’Unione. Il capo dello Stato ungherese, Jànos Ader, ha formalmente comunicato oggi che è stata scelta la data del 2 ottobre per il referendum in cui i cittadini magiari saranno chiamati a dire se accettano o no una ripartizione di quote di profughi e migranti decisa dall’esecutivo europeo.


Vista la forte paura verso l’immigrazione – specie dopo la grande ondata dell’estate scorsa, e la costruzione della barriera di filo spinato alla frontiera serba, poi prolungata a quella croata – e considerata l’altissima popolarità e il carisma del premier nazionalconservatore Viktor Orbàn, ideatore della consultazione, una vittoria del no sembra quasi scontata.


Ecco la domanda che i cittadini leggeranno sulla scheda elettorale del referendum: “Volete che l’Unione europea, anche senza consultare il Parlamento ungherese, prescriva l’immigrazione in Ungheria di persone che non sono cittadini ungheresi?”. Da tempo Orbàn si è detto assolutamente contrario alla politica europea della ripartizione in quote, e in questa sua linea dura trova il consenso della grande maggioranza del Paese. Sulla stessa posizione lo hanno seguito gli altri tre Paesi del centroest europeo membri di Ue e Nato, cioè Cèchia, Polonia e Slovacchia, membri insieme all’Ungheria del “Gruppo di Viségrad”. Il Gruppo di Viségrad, organo di cooperazione regionale di quei 4 paesi, tutti Stati dove le dittature comuniste finirono con la svolta del 1989, sta diventando sempre più un’alleanza del fronte della fermezza dell’Est di Unione e Alleanza contro i profughi. Una posizione che non esita a scontrarsi con quelle di Bruxelles (intesa come Ue), Roma, Berlino o Parigi. 


Nel settembre scorso, la Ue aveva deciso di ripartire in altri Paesi per quote 160mila profughi da Italia e Grecia, aree di transito sovraffollate. Secondo i piani di Bruxelles l’Ungheria avrebbe dovuto accoglierne 2300 circa, ma il premier magiaro, col paese alle spalle che lo appoggia, si è subito opposto, e in dicembre ha sporto denuncia alla Corte europea di giustizia contro l’idea dei contingenti di profughi e migranti da ripartire. Da allora, egli aveva cominciato a parlare di referendum. L’Unione europea, ha dichiarato più volte Orbàn, “non può permettersi di prendere decisioni alle spalle dei popoli e contro la volontà dei popoli ,decisioni che cambiano la vita dei popoli e delle loro generazioni future”.


La linea di Orbàn – che di fatto a causa del dibattito sul problema dei migranti è cresciuto come vero statista-leader del centroest euro minimalista – è criticata da Commissione e Parlamento europeo, e un compromesso non appare in vista. Il governo di maggioranza ungherese, con due forti vittorie elettorali alle spalle (201 e 2014) e di fronte a sé un’opposizione debole, spesso divisa e priva di creatività politica, è in generale contrario a un’eccessiva, accentuata integrazione politica europea, difende competenze e poteri degli Stati nazionali. E ha commentato con dispiacere la decisione degli elettori inglesi di abbandonare la Ue, notando che “il voto del Regno Unito mostra quali rischi l’Europa corre quando non ascolta i popoli”. Rammarico ben comprensibile: per Budapest, come per Varsavia, Londra in generale eurominimalista era di gran lunga il più importante alleato nella Ue. 


Contemporaneamente, l’Ungheria ha annunciato che da oggi entra in vigore per gli immigranti illegali la procedura di espulsione immediata, cioè senza che l’espulsione stessa sia preceduta da un esame di eventuali richieste d’asilo. Da oggi, chiunque sarà scoperto dopo un ingresso illegale nell’arco di otto chilometri entro le frontiere ungheresi sarà immediatamente ricondotto dalle forze di sicurezza ai reticolati che blindano l’Ungheria ai confini con la Serbia e la Corazia. Lo ha annunciato Gyoergy Bakondi, consigliere per la sicurezza interna del capo del governo, spiegando che il Parlamento ungherese (Orszaghàz), dove la Fidesz (il partito guidato da Orbàn) ha posizione di forza prominente, ha già approvato la decisione. Secondo il premier si tratta di decidere sull’indipendenza del Paese e sul suo diritto di scegliere con chi convivere.

venerdì 8 luglio 2016

Gli iracheni sbaragliano l’ISIS, ma la stampa italiana attribuisce tutto agli Stati Uniti

da: l'Opinione Pubblica


In Iraq gli esperti del Pentagono hanno ripetuto per settimane che la presa di Fallujah sarebbe stata operazione lentissima, faticosa e oltremodo sanguinosa. Secondo le stime degli esperti militari la popolazione civile di confessione sunnita si sarebbe schierata con l’ISIS o con le milizie sciite addestrate dall’Iran che si sarebbero abbandonate a vendette e saccheggi.

Niente di questo è successo, Fallujah è tornata in mano irachena rapidamente con la popolazione civile che ovunque abbia potuto si è data alla fuga e ha fornito informazioni utili alle milizie che liberavano la città.

Ma esiste, purtroppo una stampa italiana che ha serie difficoltà quando si tratta di riconoscere meriti a potenze in ascesa come la Russia. Infatti se le milizie del paese invaso dall’ISIS riescono ad avanzare velocemente su alcuni fronti, bisogna ringraziare soprattutto la tecnologia e gli equipaggiamenti di marca russa cui sono forniti. Invece i continui bombardamenti di apparecchi ad ala fissa e mobile con cui l’Aviazione Irachena, equipaggiata in massima parte con macchine russe, ha distrutto le colonne dei terroristi in fuga da Fallujah e dintorni, sono stati immediatamente attribuiti all’Aeronautica Usa, quella che, lo ricordiamo, all’apice della sua campagna anti-ISIS compiva sei missioni al giorno, spesso sbagliando bersaglio e colpendo gli irakeni o lanciando munizioni e rifornimenti sulle posizioni del Califfato.

Gli Usa, ricordiamolo, finora hanno fornito all’Iraq solo quattro F-16, e hanno nicchiato talmente tanto sulla vendita degli elicotteri d’attacco “Apache” da esasperare Nouri al-Maliki (all’epoca Premier irakeno) spingendolo a rivolgersi a Mosca, che prontamente ha fornito elicotteri Mi-35 e soprattutto Mi-28, i “Cacciatori della Notte” dotati di cannoncino da 30mm, 16 missili anticarro e pod di razzi da 80 o 122mm.

Gli Usa, nonostante i loro proclami roboanti, non hanno mai preso nessuna risoluta iniziativa contro l’ISIS, forse sperando che l’orda di Al-Baghdadi riuscisse a spaccare la Mesopotamia lungo linee etniche e a togliere le leve del potere statale alla maggioranza sciita della popolazione e ai partiti politici che ne sono espressione.

giovedì 7 luglio 2016

De Benoist: “Il patriottismo? Amare i propri non significa odiare gli altri”

di Nicolas Gauthier (barbadillo.it)


Per alcuni partiti politici l’unica linea di frattura è tra i “nostri” e gli “altri”. Non è un concetto un po’ smilzo?

“Soprattutto, è equivoco. Si vuol dire che per principio è sempre legittimo preferire i “nostri” o che, rispetto agli “altri”, i “nostri” hanno sempre ragione? Il vecchio principio “my country, right or wrong” è spesso mal interpretato. Non significa affatto che si debba dare ragione al proprio paese anche quando ha torto ma che, anche quando ha torto, resta il proprio paese: non è lo stesso.

Per ammettere, inoltre, che il proprio paese possa avere torto, bisogna disporre di un criterio di giudizio che vada al di là della sola propria appartenenza. In mancanza di tale criterio, la verità si riduce all’appartenenza, cioè alla mera soggettività. E’ la concezione sviluppata da Trotsky ne “La loro morale e la nostra” (1938). Non è la mia. Sulla preferenza, invece, non ho obiezioni. L’appartenenza comune alimenta, non solo nell’uomo ma anche negli altri animali, un sentimento naturale che porta a preferire quelli che ci sono più vicini, che ci somigliano e che possono riconoscerci. Non ne segue che dobbiamo detestare gli altri. In genere, un uomo preferisce i suoi figli ai figli degli altri. Se suo figlio sta annegando assieme a uno dei suoi compagni, cercherà di salvare per primo suo figlio. Ci sono, certo, eccezioni, a volte giustificate, ma confermano la regola.

Nondimeno il patriottismo è diventato oggi, agli occhi di molti, un’idea vetusta, degna di quella “Francia appassita” stigmatizzata a suo tempo da Philippe Sollers. Come si è arrivati a ciò?

“ottima domanda. Lattanzio, soprannominato “Il Cicerone cristiano”, diceva agli inizi del IV secolo che “l’attaccamento alla patria è, nell’essenza, un sentimento ostile e malevolo”. Pare aver fatto scuola. Ma come si è giunti a demonizzare il sentimento naturale di preferenza per i propri? Cerco di abbozzare una risposta. Sull’onda dell’ideologia del progresso, dapprima si è squalificato il passato per il solo motivo che la modernità attribuisce più valore al presente che al passato. Il passato, portatore di valori e di esempi superati, non ha quindi più niente da dirci. Al peggio è un errore, al meglio un annuncio imperfetto delle categorie moderne. Poi le grandi ideologie universaliste ci hanno convinti in primo luogo che tutti gli uomini sono ovunque gli stessi, poi che fra quelli identici ce ne sono comunque alcuni peggiori degli altri: gli europei. Questa convinzione ha spalancato le porte del pentimento: bisogna pentirsi, se non scusarsi di esistere. Amore dell’altro, odio di sé. Un debito infinito verso il resto del mondo, la redenzione tramite l’immigrazione. Come scrive Francois Bousquet, “il maggioritario è tre volte colpevole: in quanto maschio (processo per misoginia), in quanto eterosessuale (processo per omofobia), in quanto bianco (processo per razzismo)”. Ci si è anche impegnati a screditare tutto ciò che appartiene all’ordine della natura, dell’ancoraggio o del radicamento. Yann Moix dichiara fieramente che “la nascita non può essere biologica”, perché nascere “è affrancarsi dai propri geni”, cosa di cui è capace solo “chi preferisce gli orfani ai figli di famiglia, gli adottati ai programmati, i fuggiaschi ai successori, le devianze alle discendenze”. Il filosofo Ruwen Ogien scrive: “Si pone il problema di capire perché una donna dovrebbe preferire i propri figli a quelli del vicino, per il semplice fatto che sono biologicamente i suoi, quando tutti hanno lo stesso valore morale in quanto persone umane”. Infine, si è desacralizzato. Anche se alla fine è stato annullato, l’invito rivolto al rapper Black M di venire a cantare a Verdun rientra in questo quadro (Prokofiev a Palmira, Black M a Verdun, due mondi). Ancor più notevole sono le parole pronunciate da Najat Vallaud-Belkacem per giustificare che si possa ancora cantare la Marsigliese: “La Marsigliese è un inno nazionale rivolto all’universale. Il suo posto nella nostra scuole è dunque molteplice, diverso e vario. Si basa sulla voce, lo strumento più democratico che ci sia. Questo ordito di imbecillità esprime una vera contorsione mentale. Nello stesso spirito ci si impegna a rappresentare le opere di Wagner con messe in scena grottesche, per screditare il contenuto ideologico del libretto”.

L’antirazzismo ha svolto un ruolo…

“Il razzismo di cui oggi si parla non ha nulla a cui vedere con le razze. Il termine è diventato un comodo operatore che consente di stigmatizzare ogni critica rivolta a minoranza le cui rivendicazioni si esprimono nel linguaggio dei diritti onde mettere la maggioranza in imbarazzo e renderla estranea a se stessa. Dalla battuta alla “molestia”, tutto ciò che può essere percepito come sgradevole, spiacevole, umiliante, offensivo da questo o quell’individuo a causa della sua appartenenza a questo o quel gruppo, è considerato “razzismo”. Non si nasconde, del resto, che anche una definizione oggettiva del razzismo sarebbe discriminazione: “un atteggiamento percepito come razzista da una persona “razzistizzata” deve essere considerato tale senza discutere. Sono legittimate a definire il razzismo di una situazione solo le persone “razzizzate” in causa”, si è potuto leggere in un testo recente. In parallelo , al cinema i film di fantascienza hanno preso il posto dei western, perché solo con gli extraterrestri si può immaginare una lotta senza quartiere senza “discriminare”. Il razzismo ha finito così per raggruppare tutte le “fobie” nei cui confronti sensibilità esasperate esigono risposte istituzionali e giudiziarie. La legge è chiamata più che mai a consacrare il sentimento o il desiderio. Ritroviamo, qui, i disastri causati dalla soggettività. la figura del nomade, dell’individuo estraneo al suolo, disincarnato, che non è “determinato” da alcunché e si crea liberamente da solo si è imposta a poco a poco, mentre la “società aperta” si imponeva come l’insuperabile orizzonte del nostro tempo”.